Il Football di Marcello Spadola: Quanto conta un allenatore nei risultati di una squadra ?

Ma quanto conta un allenatore nei successi o nella mediocrità di una squadra di calcio? E' una domanda che spesso mi pongo alla quale dovrei rispondere che non conta niente se dovessi prendere alla lettera una disperata battuta di Zdenek Zeman che ai suoi giocatori quando allenava l'Avellino ultimo in classifica di serie B ebbe a dire: «Darò cinque euro per ogni tiro in porta». Dopo aver tentato ovunque il Bel gioco contro lo schema avaro, un esteta come Zeman si arrende al disincanto dei risultati.
Zeman ama il gioco a zona, lo stesso di cui Arrigo Sacchi é stato maestro in Italia. La zona prima pensa agli spazi poi alla marcatura, prima a costruire il proprio football poi ad annullare quello altrui. Più che una tattica calcistica, é una visione della vita.
Ci sono sempre stati allenatori che fanno scuola. Il meglio del difensivismo organizzato, cioè del Catenaccio con la nobile C maiuscola, é figlio di un trevigiano e di un triestino. In omaggio a Gipo Viani di Nervesa della Battaglia, il Catenaccio primitivo viene chiamato non a caso Vianema. Ma é Nereo Rocco che sublima il «primo non prenderle» come zoccolo duro da cui far partire la gran caccia al gol. Dialetto, vino e umanità un gladiatore chiamato Parón un allenatore capace di cambiare il calcio con la forza delle sue idee e del suo carisma inarrivabile. Fu il primo a portare in Italia la Coppa dei campioni.


Helenio Herrera e Nereo Rocco

Gipo Viani con un giovanissimo Gianni Rivera

«Scusi, Parón, come vanno i rapporti tra lei e Gipo Viani?». «Ottimi! Meglio non si potrebbe. Quando vinciamo, è merito di Gipo; quando perdiamo, la colpa è mia…». Il Parón era Nereo Rocco. Con Giuseppe «Gipo» Viani, dirigente, una formidabile coppia (due amici, ed era vero!) alla guida di un grande Milan, negli anni Sessanta e Settanta. La battutaccia, che poi vale spesso nei matrimoni, negli affari, in qualsiasi sodalizio, era una delle tante esternazioni argute di Rocco, un triestino affabile, loquace, coinvolgente. Tra gli allenatori, a mia memoria il più simpatico, insieme con Oronzo Pugliese, di stile popolaresco estremo, e Fulvio Bernardini, di raffinata eleganza. Nostalgia, rimpianto dei grandi personaggi che c’erano una volta? Non credo. Sfido chiunque a sostenere che Arrigo Sacchi, Giovanni Trapattoni, Massimiliano Allegri, ma anche Fabio Capello, siano paragonabili, per empatia, ai tre mattatori. Forse solo Carlo Ancelotti si avvicina per semplicità, ma è assai meno trascinante. Alla vigilia di una partita contro una grande squadra un cronista gli dice: «Allora, Parón: vinca il migliore!». E lui, pronto: « S p e r e m o de no…». Il dialetto era la sua forza, il suo codice tanto comprensibile quanto intraducibile. Al suo calciatore Alberto Bigon: «Ti te ga studià, vero? E alora, mona de un dotòr, tradusi, che questi no conossi le lingue». «Pelè? Mi no credevo che un omo podessi far questo!». Ai calciatori prima della partita: «A tuto quel che se movi su l’erba, daghe! Se xe ‘1 balon, no’ importa ! ». Ai calciatori, durante l’intervallo, se la partita stava andando male: «Testa de gran casso, ti e anca quel che t’ha messo in squadra». Ai calciatori anziani: «Te jèri campion, no’ ti poi finir bidòn!». Sugli allenatori: «Dal lunedì al venerdì, i xe olandesi. Al sabato, i ghe pensa. La domenica, giuro su la mia beltà, tuti indrìo e si salvi chi può» Un modulo, tante forme: l’Inter di Herrera e il Milan di Rocco.


Arrigo Sacchi, Carlo Ancelotti Antonio Conte


Massimiliano Allegri

Fu in questo periodo che il catenaccio sì perfezionò: dopo l’ala tornante a sinistra comparve il terzino fluidificante che aveva il compito di equilibrare il baricentro della squadra spingendo sull’out mancino. Il libero, che inizialmente aveva semplicemente il compito di “spazzino” dell’area, divenne un autentico regista della difesa con compiti di costruzione del gioco.
Furono i successi del Milan di Nereo Rocco e dell’Inter di Helenio Herrera a nobilitare il Catenaccio (denominazione che dai Sessanta soppiantò definitivamente quella di Mezzo Sistema), pur se con interpretazioni diverse che confermano l’estrema elasticità di questo sistema di gioco dove l’unica cosa certa era il libero staccato davanti alla difesa e le marcature personalizzate.
Ad esempio l’Inter di Herrera, campione d’Europa nel biennio 1963-65, era schierata con un Catenaccio molto peculiare che nella sua forma assomigliava molto al classico 4-2-4 di marca sudamericana: un regista arretrato quasi davanti alla difesa (Luis Suarez), una finta ala sinistra (l’indolente Mario Corso) che nei fatti era un vero e proprio trequartista ed una seconda punta con la mascherina (Sandro Mazzola) dietro il finto centravanti Peirò. Sulla corsia di sinistra il terzino sinistro Facchetti in fase d’attacco si trasformava in un vero e proprio attaccante aggiunto.
Il Milan di Rocco campione d’Europa nel 1969 era schierato invece con uno schieramento molto diverso: davanti alla difesa c’erano infatti ben due mediani (Lodetti e Trapattoni) che dovevano coprire le spalle al trequartista avanzato Rivera, in attacco c’erano infine ben tre attaccanti puri come Hamrin, Sormani e Prati. Come si vede il catenaccio non era un modulo di gioco prettamente difensivo e non escludeva una linea d’attacco molto folta e munita.
Padova é stata una università tattica fin dagli anni '40. E un tecnico friulano, Alfredo Foni, vince due scudetti negli anni '50 fornendo ai formidabili attaccanti dell'Inter la garanzia dello 0-0 in difesa.
Sarebbe interessante andare a fondo di questa storia che vede tutta gente del Nordest produrre il calcio più pragmatico e tagliato su misura per gli italiani. Anche perché un altro friulano di frontiera, Enzo Bearzot, nel 1982 vince spettacolarmente il  Mondiale.
In Svezia al mondiale del 1958 nel ritiro del Brasile frotte di giornalisti erano lì per intervistare Garrincha, dio delle ali destre di tutti i tempi. Raccontano che si entrava in un salottino con caminetto e qualche poltrona in cuoio scuro. Non c'erano altri però, soltanto Vicente Feola, grande palla di carne seduta con il suo sigaro, i suoi pensieri e il suo sorriso oriundo meridionale. Era un monumento tattico, da anni l'ideologo di una formula con tre numeri, il 4-2-4, ricavato dall'allineamento tattico dei giocatori brasiliani in campo.


Vicente Feola con Dialma Santos, Zagalo e Pelè

Feola col suo magico Brasile

Ascoltarlo per imparare, dicono, era per tutti un vero piacere, anche perché  Feola vedeva il calcio come in controluce o su una lastra radiologica. I calciatori erano segni di un invisibile disegno d'assieme: con tanti assi in squadra, non servivano rigidi binari ma trame di servizio alla classe. Feola sarebbe passato alla storia come l’allenatore della nazionale brasiliana che vinse il Mondiale in cui volle fortemente il diciassettenne Edson Arantes do Nascimento, che sarebbe stato soprannominato O Rey per le sue straordinarie imprese sportive. Stiamo parlando di uno dei calciatori più forti di tutti i tempi: Pelé.
Dopo aver sconfitto la Francia in semifinale, in finale i brasiliani incontrarono, la nazionale ospitante, la Svezia, che invece aveva sconfitto nell’altra semifinale la Germania Ovest.
La partita valida per il titolo si giocò il 29 giugno 1958 al Rasunda Stadium di Solna, città nella contea di Stoccolma. Feola schierò il suo Brasile con un modulo a dir poco innovativo, un 4-2-4 difficilmente proponibile nel calcio odierno e che si traduceva in un “tutti all’attacco”.
Anche l'offensivismo alla olandese é inventato a tavolino, al seguito di una cultura popolare. Ma gli allenatori in gamba sanno modificare anche un giocatore, assi compresi.
Helenio Herrera portò all'Inter degli anni '60 Luis Suarez, interno di punta del Barcellona, per farne invece il regista lanciatore del contropiede. Arretrò di molto la posizione di Suarez e, in aggiunta, lanciò sul corridoio sinistro Facchetti che da allora fu battezzato terzino «fluidificante». Gianni Brera, che era un Feola della tribuna stampa, avrebbe voluto che Facchetti, bello alto e atletico, provasse a fare il centravanti.
La mano dei buoni allenatori si sente, eccome. Con Zambrotta Marcello Lippi ha ricavato da un'ala uno dei miglior terzini a livello internazionale.  Alla Juve Lippi viene definito «allenatore dei cervelli»; forse per questo non poteva funzionare all'Inter dove, per gene e tradizione, serve un «allenatore dei nervi».
Il calcio prevede anche presidenti ritardatari e giocatori sbadati, ma la differenza prodotta da un tecnico che funziona vale almeno un 20 per cento: la differenza di quella decina di punti che fanno uno scudetto o la frustrazione perpetua.
fonti varie
Marcello Spadola

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