Il football di Marcello Spadola: Quel giorno l’Inghilterra pianse era il 23/11/1953
Wembley: Inghilterra-Ungheria 3-6. Show magiaro, dominio assoluto degli ospiti e shock nazionale. E come spesso accade agli inglesi, in caso di umiliazione la boria lascia il passo all’ammirazione smisurata. Del resto, quel pomeriggio del 1953 resterà per sempre nella memoria degli inventori del calcio. L’Inghilterra aveva già perso delle partite, dal 5-1 con la Scozia nel 1928 all’1-0 con gli Stati Uniti nell’esordio al mondiale del Brasile nel 1950 dopo anni di snobistici rifiuti, ma mai in casa. Un avvenimento storico, si dice, è sempre preannunciato da portenti naturali. Luca Trevisani, confuso tra i centomila di Wembley così inizia il suo racconto dell'evento: Se è leggenda non so continua, ma pochi minuti prima che nello stadio di Wembley la partita cominciasse a correre sul prato, nel più grande incontro di calcio del secolo, un tenue solicello, tutto quello che Londra poteva regalare in questa stagione, ha forato le nubi e messo in fuga la nebbiolina che confondeva il paesaggio
Nella massa dei centomila e più che si accalcavano alle entrate il sole sembrò allontanare per un attimo la corrente nervosa che si trasmetteva dall’uno all’altro, con una frase, un pronostico, una battuta scherzosa. Ma l’ingresso delle squadre in campo fece immediatamente rimontare la marea della tensione, e persino l’applauso della folla fu trattenuto, breve, quasi nel timore di far esplodere troppo presto e con troppa violenza quello che ognuno aveva dentro.
I preliminari di una partita internazionale sono una cerimonia solenne: gli inni nazionali, i saluti, gli scambi d’insegne fra le due squadre, fanno parte integrante, per gli sportivi dello spettacolo. Ma oggi, pur nel silenzio composto sentivi l’insofferenza del pubblico inglese, ansioso di vedere finalmente i diavoli in maglia rossa, l’avversario temuto, toccare la palla: da quel primo colpo quasi con feticismo, sperava di ricavare un giudizio sulle forze in lotta, traendone auspici o mettendo in fuga i timori. Non
ce ne fu il tempo.Non erano passati 45″, ed il pallone già s’insaccava nella porta inglese, imparabile. I nervi si spezzarono come vetro.
Ma l’eco che rimbombò nello stadio fu cupa e lunga: il primo pezzo dell’invincìbile, ormai secolare mito del calcio inglese era crollato.Non avevo mai visto una partita in vita mia: conosco appena le regole del calcio, i nomi dei giocatori mi sono ignoti o quasi, non so valutare uno stile, metodo o sistema sono per me espressioni senza significato. Eppure ho sentito, forse contagiato dall’intuizione collettiva di centomila cervelli, che la storia del calcio era ormai giunta ad una svolta.
L’urlo della folla che incoraggiava i bianchì era ancora pieno di fiducia e di forza: l’Inghilterra non ha mai perso, diceva, e non perderà. Quando i bianchi pareggiarono (e la loro bravura era più evidente) l’ondata delle speranze rimontò in modo quasi palpabile: lo leggevi sui visi sorridenti, sulle mani che si abbandonavano, dopo le contrazioni spasmodiche che le avevano tenute serrate mentre la palla su e giù per il campo, su e giù per il campo trascinava già con sè la soluzione della vicenda.
Fu per poco: non erano passati 5′ ed il pendolo sentimentale dei tifosi inglesi aveva già ondulato dalla gioia allo sconforto. I rossi correvano come centometristi, giravano come trottole con la palla miracolosamente incollata al piede, ricamavano il prato con le loro figure precise ed immaginose di una danza. Quanto avrebbe potuto resistere il pareggio inglese di fronte all’irruenza intelligente degli ungheresi?
Al 20′ si vide che quel pareggio non era più una fortezza, ma anzi solo l’ultimo spalto che i bianchi avranno difeso con le unghie e coi denti della loro provata bravura.
Fu in quel momento che la superiorità delle maglie rosse bussò, per la seconda volta, alla porta bianca, E da allora non sarà più importante contare le volte che la difesa inglese verrà battuta sino all’ultimo uomo.
Non servirà più calcolare quanto sia largo, nel punteggio e nella classe, lo scarto che separa le due squadre, tener conto dei goals degli uni e degli altri: i dadi sono tratti. La battaglia ha ormai un vincitore indiscutibile.
L’urlo della folla si fa raro, scende verso i toni bassi della delusione, spezzato solo, di tratto in tratto, da un grido più acuto, che esprime il raffiorare, per un istante, di speranze moribonde. Anche le cose partecipavano all’ultimo atto della tragedia del calcio inglese. Fuori, intorno al grigio stadio, decine di migliaia di automobili, infreddolite dalla nebbia che a mano a mano infittiva, s’imperlavano di goccioline d’ansia, gli occhi dei televisori sbattevano perplessi, alla caccia sempre più difficile del pallone che gli ungheresi facevano correre con la velocità prodigiosa di uno strumento meccanico.
Il microfono tremava nelle mani degli speaker della radio, eccitati al punto da dimenticare la cronaca per esprimere la loro angoscia o la loro gioia. “Matthews, vecchio Mim – disse accorato l’annunciatore della radio inglese – i boys ungheresi sono molto più veloci di te. Non volevamo ammetterlo abbiamo esitato troppo ad ammetterlo. Le maglie rosse sono i più forti calciatori del mondo”
Velocità, continua iniziativa, ingegno, sapienza nella costruzione: sono le doti che hanno fatto degli ungheresi i vincitori dei maestri del calcio. Gli sportivi di tutto il mondo che si erano radunati oggi a Wembley sono unanimi nel giudizio, ed io posso solo raccoglierlo, senza avere la pretesa di spiegare le ragioni tecniche per cui le maglie rosse d’Ungheria hanno oggi vinto le maglie bianche d’Inghilterra. Hanno vinto, ecco tutto.
Ed è veramente tutto. Non si parla di sorte avversa e propizia, o altri fattori secondari, come il tempo, il campo, o che so io: hanno vinto perchè sono i più forti indiscutibilmente e sono la più grande squadra del mondo. Oggi che gli inglesi hanno piegato le ginocchia sotto un colpo duro e non casuale, novant’anni di predominio sono ormai finiti. A versare sale nella ferita degli inglesi ci pensò, a fine gara, Sandor Barcs, presidente della federazione magiara: "Tutto ciò che sappiamo del calcio lo abbiamo imparato da un inglese, Jimmy Hogan"
Allora 71enne, Hogan era in tribuna quel giorno, con i ragazzi che allenava all’Aston Villa. In gioventù aveva girato l’Europa danubiana e l’Africa insegnando calcio qua e là. Da quel giorno Hogan fu considerato un traditore, e a chi lo voleva sulla panchina dell’Inghilterra fu risposto che era troppo vecchio. Ormai comunque la storia era fatta, anche se il peggio doveva ancora venire: nel maggio seguente l’Inghilterra fu invitata a Budapest per la rivincita: finì 7-1 per i «Magic Magyars», la peggiore sconfitta nella storia della nazione che ha inventato il football.
fonti varie
Marcello Spadola
Nella massa dei centomila e più che si accalcavano alle entrate il sole sembrò allontanare per un attimo la corrente nervosa che si trasmetteva dall’uno all’altro, con una frase, un pronostico, una battuta scherzosa. Ma l’ingresso delle squadre in campo fece immediatamente rimontare la marea della tensione, e persino l’applauso della folla fu trattenuto, breve, quasi nel timore di far esplodere troppo presto e con troppa violenza quello che ognuno aveva dentro.
I preliminari di una partita internazionale sono una cerimonia solenne: gli inni nazionali, i saluti, gli scambi d’insegne fra le due squadre, fanno parte integrante, per gli sportivi dello spettacolo. Ma oggi, pur nel silenzio composto sentivi l’insofferenza del pubblico inglese, ansioso di vedere finalmente i diavoli in maglia rossa, l’avversario temuto, toccare la palla: da quel primo colpo quasi con feticismo, sperava di ricavare un giudizio sulle forze in lotta, traendone auspici o mettendo in fuga i timori. Non
Inghilterra- Ungheria: i due capitani Billy Wright e Ferenc Puskas |
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Ma l’eco che rimbombò nello stadio fu cupa e lunga: il primo pezzo dell’invincìbile, ormai secolare mito del calcio inglese era crollato.Non avevo mai visto una partita in vita mia: conosco appena le regole del calcio, i nomi dei giocatori mi sono ignoti o quasi, non so valutare uno stile, metodo o sistema sono per me espressioni senza significato. Eppure ho sentito, forse contagiato dall’intuizione collettiva di centomila cervelli, che la storia del calcio era ormai giunta ad una svolta.
L’urlo della folla che incoraggiava i bianchì era ancora pieno di fiducia e di forza: l’Inghilterra non ha mai perso, diceva, e non perderà. Quando i bianchi pareggiarono (e la loro bravura era più evidente) l’ondata delle speranze rimontò in modo quasi palpabile: lo leggevi sui visi sorridenti, sulle mani che si abbandonavano, dopo le contrazioni spasmodiche che le avevano tenute serrate mentre la palla su e giù per il campo, su e giù per il campo trascinava già con sè la soluzione della vicenda.
Fu per poco: non erano passati 5′ ed il pendolo sentimentale dei tifosi inglesi aveva già ondulato dalla gioia allo sconforto. I rossi correvano come centometristi, giravano come trottole con la palla miracolosamente incollata al piede, ricamavano il prato con le loro figure precise ed immaginose di una danza. Quanto avrebbe potuto resistere il pareggio inglese di fronte all’irruenza intelligente degli ungheresi?
Al 20′ si vide che quel pareggio non era più una fortezza, ma anzi solo l’ultimo spalto che i bianchi avranno difeso con le unghie e coi denti della loro provata bravura.
Fu in quel momento che la superiorità delle maglie rosse bussò, per la seconda volta, alla porta bianca, E da allora non sarà più importante contare le volte che la difesa inglese verrà battuta sino all’ultimo uomo.
Non servirà più calcolare quanto sia largo, nel punteggio e nella classe, lo scarto che separa le due squadre, tener conto dei goals degli uni e degli altri: i dadi sono tratti. La battaglia ha ormai un vincitore indiscutibile.
L’urlo della folla si fa raro, scende verso i toni bassi della delusione, spezzato solo, di tratto in tratto, da un grido più acuto, che esprime il raffiorare, per un istante, di speranze moribonde. Anche le cose partecipavano all’ultimo atto della tragedia del calcio inglese. Fuori, intorno al grigio stadio, decine di migliaia di automobili, infreddolite dalla nebbia che a mano a mano infittiva, s’imperlavano di goccioline d’ansia, gli occhi dei televisori sbattevano perplessi, alla caccia sempre più difficile del pallone che gli ungheresi facevano correre con la velocità prodigiosa di uno strumento meccanico.
Il microfono tremava nelle mani degli speaker della radio, eccitati al punto da dimenticare la cronaca per esprimere la loro angoscia o la loro gioia. “Matthews, vecchio Mim – disse accorato l’annunciatore della radio inglese – i boys ungheresi sono molto più veloci di te. Non volevamo ammetterlo abbiamo esitato troppo ad ammetterlo. Le maglie rosse sono i più forti calciatori del mondo”
Velocità, continua iniziativa, ingegno, sapienza nella costruzione: sono le doti che hanno fatto degli ungheresi i vincitori dei maestri del calcio. Gli sportivi di tutto il mondo che si erano radunati oggi a Wembley sono unanimi nel giudizio, ed io posso solo raccoglierlo, senza avere la pretesa di spiegare le ragioni tecniche per cui le maglie rosse d’Ungheria hanno oggi vinto le maglie bianche d’Inghilterra. Hanno vinto, ecco tutto.
Ed è veramente tutto. Non si parla di sorte avversa e propizia, o altri fattori secondari, come il tempo, il campo, o che so io: hanno vinto perchè sono i più forti indiscutibilmente e sono la più grande squadra del mondo. Oggi che gli inglesi hanno piegato le ginocchia sotto un colpo duro e non casuale, novant’anni di predominio sono ormai finiti. A versare sale nella ferita degli inglesi ci pensò, a fine gara, Sandor Barcs, presidente della federazione magiara: "Tutto ciò che sappiamo del calcio lo abbiamo imparato da un inglese, Jimmy Hogan"
Allora 71enne, Hogan era in tribuna quel giorno, con i ragazzi che allenava all’Aston Villa. In gioventù aveva girato l’Europa danubiana e l’Africa insegnando calcio qua e là. Da quel giorno Hogan fu considerato un traditore, e a chi lo voleva sulla panchina dell’Inghilterra fu risposto che era troppo vecchio. Ormai comunque la storia era fatta, anche se il peggio doveva ancora venire: nel maggio seguente l’Inghilterra fu invitata a Budapest per la rivincita: finì 7-1 per i «Magic Magyars», la peggiore sconfitta nella storia della nazione che ha inventato il football.
fonti varie
Marcello Spadola
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