I viaggi di Football- Kharma: I Monaci di Lho Manthang e il guado verso Tangge.

Subito dopo colazione, lasciamo la casa dove si trova il nostro accampamento e con pochi passi raggiungiamo la fila di chorten rossi che annuncia e precede la porta che interrompe le mura e permette di entrare nella cittadina di Lho Manthang, la capitale di questo regno. “Solo il re e la regina hanno il diritto di cavalcare per le strade della capitale, tutti gli altri devono scendere da cavallo e proseguire a piedi”, avevamo letto, increduli, sulla guida del Mustang. Ma è davvero e tuttora così. L’ingresso che si para davanti ai nostri occhi però non ha nulla di imponente o maestoso. Al contrario: è una breve galleria disseminata di escrementi di animali e sormontata da una cornice di legno che forse un tempo era dipinta e maestosa ma ora conserva ben poche tracce di un eventuale antico splendore. Eppure, da secoli questo varco è considerato un accesso quasi sacro, al punto da

Lho Manthang - Tiji Festival



essere chiuso al tramonto e riaperto solo alle prime luci dell’alba. Ci avventuriamo con curiosità ed entusiasmo tra i vicoli stretti e bui che presto sfociano in una piazzetta, dove un gruppo di donne è intento a lavare panni, stoviglie e pentole attorno a una grande fontana. Di fronte, notiamo un edificio che pur nella sua semplicità ed essenzialità si distingue dagli altri perché nella forma ricorda un monastero, al posto dei soliti due piani ne misura quattro, e al piano terra ha un porticato in legno invece della piccola porta di legno o di pietra delle case comuni. Un mastino tibetano se ne sta acciambellato all’ingresso, mentre il grosso muso nero di un secondo esemplare della stessa razza si affaccia dalle grandi aperture simili a finestre senza vetri del primo piano: quest’ultimo particolare ci fa improvvisamente capire di essere davanti al palazzo del re del Mustang, che di regale ha in verità molto poco ma per contro è perfettamente in armonia con il resto della città.
Dopo pranzo, ritorniamo nel quartiere monastico, nella parte nord della cittadina. In attesa della cerimonia religiosa che si svolge ogni sera alle sei, abbiamo tutto il tempo per entrare nella scuola e sbirciare i giovani monaci che stanno studiando, a gruppetti nelle classi oppure da soli, seduti per terra e concentrati sui loro testi. Siamo accolti da tutti con un sorriso, e con un gesto cortese i monaci maestri ci invitano a entrare, a fotografare e ad assistere alle lezioni. Poco dopo ci avvicina uno studente adolescente che, ansioso di poter mettere in pratica l’inglese appreso sui libri, ci accompagna sul tetto della scuola. Qui, mostrandoci ogni particolare della città vista dall’alto e della valle che la circonda, ci chiede da dove veniamo, racconta la sua storia e domanda che cosa ne pensiamo del Mustang: “it’s a wonderful land with wonderful people”, una terra meravigliosa abitata da gente meravigliosa, rispondiamo istintivamente e in tutta sincerità. È così che dall’alto della scuola buddista assistiamo al calare del sole dietro una delle numerose vette himalayane che fanno da corona alla vallata, in compagnia di questo e di altri giovani così diversi eppure così simili a noi, conversando con loro del passato e del futuro, di religione e di vita quotidiana, di esigenze e difficoltà degli abitanti del magico regno del Mustang, e osservando il semplice gesto antico con cui si aggiustano la tunica rosso mattone sulle braccia nude mentre noi già da tempo abbiamo chiuso fino al collo la cerniera dei nostri pesanti giacconi per ripararci dal vento che si è fatto Sappiamo che ci attende una giornata impegnativa perché dovremo guadare un fiume, il Ghechang Khola, che come molti altri corsi d’acqua del Mustang è destinato a confluire più a sud nel Kali Gandaki e soprattutto non è attraversato da nessun ponte. È meglio arrivare presto all’appuntamento con questo passaggio, ci ha avvisato ieri Zambu, prima che il sole buchi le nuvole e sciolga le nevi che alimentano il fiume, rendendolo gonfio d’acqua, impetuoso e pericoloso. Preceduti dai portatori, ci mettiamo in cammino, inizialmente senza seguire un sentiero preciso e attraverso un paesaggio brullo e grigio, per poi prendere una mulattiera che si arrampica lungo le pendici di un monte fino a sfociare su un plateau spaccato in due da una grossa fenditura. A scavarla nel corso dei secoli è stato proprio il fiume che dobbiamo attraversare. Quando ci avviciniamo all’orlo dello strapiombo, lo vediamo scorrere limaccioso e irrequieto in un vasto e sassoso greto, circa 300 metri sotto di noi. Scendiamo in silenzio, intimoriti ed eccitati da ciò che ci aspetta di lì a poco, mentre con lo sguardo seguiamo i portatori che sempre davanti a noi hanno già raggiunto il fondo valle e si preparano a superare il guado.Quanto tocca a noi, seguiamo alla lettera le istruzioni di Zambu: togliamo scarpe e calze mettendole al riparo prima in un sacchetto di plastica e poi negli zaini, infiliamo i sandali per proteggere i piedi dai sassi e arrotoliamo i pantaloni fino sopra al ginocchio. L’acqua per fortuna non è profonda, perché il cielo è tuttora grigio, ma nonostante ciò la traversata si rivela difficoltosa a causa della corrente e soprattutto della nostra inesperienza. Afferrando saldamente le mani di Zambu e degli sherpa che lasciate le gerle sulla sponda opposta sono tornati indietro per formare una catena umana in mezzo al fiume, riusciamo a passare indenni, uno a uno, passo dopo passo e molto lentamente per il timore di scivolare sui sassi melmosi. Quando siamo tutti in salvo sulla sponda opposta, le braccia e gambe indolenzite per la tensione e lo sforzo, guardiamo l’orologio: questo maldestro e improvvisato balletto nell’acqua ha richiesto un’ora di tempo. Nel frattempo, anche i cavalli sono arrivati al guado e lo stanno affrontando con una tranquillità e sicurezza che non possiamo fare a meno di ammirare e invidiare.
fonti varie, dal diario di un "Viaggiatore"
Marcello Spadola

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